A= Anatomia dell'Assenza o l' Elegante Leggerezza dell'Autodistruzione [2008 - 2009]

A=Anatomia dell'Assenza O l'Elegante Leggerezza dell'Autodistruzione

Recensione critica
A cura di Sabrina Falzone

Parafrasando le metodologie esecutive dell’iconoclastia bizantina, l’artista maceratese Claudio Fazzini riporta in auge la negazione della memoria e la complessa realizzazione di un’opera d’arte in continuo divenire.
Dal punto di vista tecnico occorre fare una specifica distinzione tra il procedimento esecutivo delle figure maschili (l’Anatomia dell’Assenza) e la progettazione dei soggetti femminili (l’Elegante Leggerezza dell’Autodistruzione).
La realizzazione dell’effigie virile si articola in un avvicendamento sottrattivo di stadi differenti che partono dal compimento della figura rappresentata e terminano con un modus operandi contrastante di rimozione di taluni strati pittorici mediante l’impiego strategico degli acidi.
Una peculiarità dell’indagine artistica di Claudio Fazzini è evidenziata da un diffuso utilizzo del bitume: in dettaglio, l’opera viene prima completata, successivamente ricoperta dal catrame in forma di “seppellimento” dell’imago ed infine corrosa dall’acido.
E’ l’apogeo della contraddizione, una poetica del contrasto che Fazzini interpreta come un viaggio a ritroso nella pittura, un percorso mnemonico che si genera dall’epilogo e si completa con lo “scavo” e il rinvenimento dell’immagine, fondato sulla metafora archeologica.
L’esecuzione delle figure femminili, invece, ricalca il modello della stratificazione con la relativa sovrapposizione di letture addizionali dell’immagine artistica, un procedimento nettamente in opposizione al precedente.
Sia la serie dedicata all’Anatomia dell’Assenza, sia il ciclo pittorico intitolato l’Elegante Leggerezza dell’Autodistruzione convergono in un unico approdo: la dispersione dell’identità umana, una ferita che trapassa il nostro secolo senza aver la possibilità di cicatrizzare. Nella ricerca artistica di Claudio Fazzini emerge la resa dell’introspezione come estinzione dell’individuo nella società contemporanea.. Ad una più accurata osservazione si noteranno i volti frontali, attanagliati dalla luce, emblemi di un’anima trincerata dall’oblio.

L’Anatomia dell’Assenza è una pratica iconoclastica.
“ L’iconoclastia non ostenta un muro bianco e neppure una rottura di qualcosa che non si sa più cosa sia, ma un immagine che porta il segno di questa rottura e che compete, in potenza, con quella di “prima”. Quello che c’era prima, non c’è più: questo ci dice l’iconoclastia”.
E ancora:“La condizione dell’orientamento iconoclasta, dota l’artista di due mani: una iconografica e una iconoclasta; una mano è di Abele e l’altra è di Caino, e questa è sempre l’ultima ad agire, perché rovina –nel tipo- l’archetipo vivente in esso: per questo l’arte è cosi legata alla colpa. Colpa di esserci come fenomeno, e poi come rovina di ciò che esiste” (Castellucci).
Per arrivare a questo Fazzini fa uso di due operazioni: sottrattiva ed addizionale.
La prima consiste nello scavare l’opera dopo averla seppellita (di qui l’utilizzo del catrame come materia che ricopre interamente l’opera) per farne brillare convulsivamente la luce dall’interno. Ne esce cosi un’opera che si costituisce alla fine e questo mediante l’aggressione al soggetto iniziale, sempre in modo casuale, che si viene ad auto-contestare, a contraddire, che insomma comincia dov’è finita. Ciò che conta qui è il disfare, il misfatto.
La seconda, addizionale (l’Elegante Leggerezza dell’Autodistruzione), consta di una serie di sovrapposizioni che portano quasi fino alla cancellazione della figura. Le linee (che partono direttamente dalla figura e che quindi negano il rapporto soggetto/oggetto figura/spazio) si intersecano e sommano tra loro, in un turbine barocco (un barocco che però si fonde con linee costruttiviste, geometrie che scagionano ogni naturalismo e organicità) che fa perdere sia l’io, ma soprattutto anche il soggetto, tra i drappi, in una nullificazione d’ogni personalità.
In entrambi i casi la figura ruota su se stessa, come una trottola, cosi perdendo ogni connessione dialettica con lo spazio attorno, spazio anch’esso fuso con la figura, come proiezione della medesima e quindi come negazione d’ogni conflittualità ancorata all’io. I entrambi i casi il frontale è negato: nelle figure maschili viene accecato/solarizzato (un massimo di evidenziazione che però coincide con un minino di visibilità), in quelle femminili viene neutralizzato con una sovrapposizione d’altra figura oppure nello slogamento dello sguardo, che perde cosi ogni profondità intesa come introspezione.
Ogni taglio, ferita, sezione, mostrano solamente stoffa, ricamo, come impossibilità di andare a fondo, di trovare il nucleo, verità ultima etc. Gli arti/tic sono la Grazia d’ogni volere-potere, d’ogni scopo, finalità, ambizione etc. E’il tempo ad essere negato, la sua proiezione futura sottoforma anche di sogno, desiderio (quindi futuro) legato al passato (nostalgia).
Figure dunque in stato di grazia, ovvero graziate dal voler/dover essere. Ospitali al gratuito.
In un’operazione totalmente opposta a quella che di solito li usa per farne “soggetti” (da Pinocchio ai vari futuristici robot cui scopo è acquisire coscienza)le figure si fanno dunque manichini: partendo dal ritratto il modello originale viene spersonalizzato e svuotato dei connotati psicologici, rendendolo del tutto simile ad una bambola senz’anima.
Duilio Nazzai

Intervista a cura di Duilio Nazzai (Parte 1).

D.N: Partiamo dal passato. Le figure sono state sempre isolate, mai un gruppo di persone, mai una narrazione.

Esatto. Perché più figure creano subito dialogo e storia e a me non è mai interessato né l’uno né l’altro. Ma anche li c’era un rapporto spazio figura che ora non mi interessa più.

D.N: Pathology, i ritratti dei folli, hai usato spesso delle figure marginali…

Si ma è anche quello è passato. La follia è seducente perché speculare, ma lo specchio va infranto. Inoltre c’è ormai tutto un “marketing della follia”, si abbonda di camici bianchi, stampelle e carrozzine. La follia è contagiosa, ma per lo più solo a livello estetico, è un ottimo “prodotto” proiettivo. C’è un gruppo di sostegno per ogni cosa. Prima mi interessava l’anormalità, che è nell’ordine dialettico della norma, cosi come la trasgressione della legge. Adesso mi interessa solo l’anomalia.

D.N: Nel tuo libro “Soliloquy” l’utilizzo dei simboli è abbastanza intenso.

Ero piccolo e nostalgico. In realtà utilizzavo dei sigilli, che tra l’altro creavo io, ma senza stare ad indagare troppo diciamo…. che ero un po’ingenuo. Qua e la si capta una frattura all’interno del libro, poi è nato il disprezzo per il conflittuale. Ho schifo per simboli e metafore perché sono concilianti, servono ad unire, a produrre senso. Certo che già prodursi in arte è lavoro simbolico e non se ne scampa, ma almeno la metonimia…divenire mai essere, aiuta a cerare una Gaia disperazione.

D.N: Però la prefazione di Dario Spada coglie la solitudine, il percorso diretto, lo chiama un "grido nel deserto"mi sembra.

Si è vero, ed è stato puntuale, ma è tutto il legame occulto/antropologico che è stato spazzato via, per non parlare dell'androgino..questa nostalgia non mi appartiene più, o meglio io non gli apparetngo più. All'epoca ero ancora nell'utopia che è appunto dei nostalgici. Ho altre ossessioni adesso.

D.N: Eppure c'è una sorta di continuità tra le opere passate e le presenti, penso per esempio, oltre alle figure isolate, alle bende negli occhi, lo sguardo comunque occultato, a volte sbiancato.

Si ma lo sbiancavo in modo grossolano. Non c'era una vera e propria operazione di rifiuto, una vera aggressione alla figura, dopo averla finita "per bene". Per me è questa l'iconoclastia, aggressione a se stessi, alla propria opera. E poi c'era troppo espressionismo prima, denotava una certa mia "artistica vocazione"che poi ho fatto deragliare totalmente....ma lo ripeto ero piccino.

D.N: Lavori sempre in serie.

È solo che di volta in volta cambio ossessione e me la vado a rigurgitare sul piatto fino ad esaurimento e di volta i volta scelgo e utilizzo i materiali per me più interessanti in quel periodo.

D.N: Però non usi mai dare titoli, al massimo in passato erano studi, ora sembrano sigle.

Nominare è dominare. Quando dai un titolo –anche solo per spiazzare-produci senso e questo concilia. Prima usavo “studi” semplicemente perché lo erano. Adesso la visione si è più cristallizzata e quindi uso le lettere che rimandano alla serie. Uso la parola visione, chiamiamola cosi, ma stendiamola con un gancio a terra.

D.N: Ma quell’A davanti? Fa pensare all’Anarchia.

Più che altro alla privazione. E’una A privativa, un’Assenza appunto. Da sempre ho inteso l’anarchia come assenza, di un sacco di cose…di tutto. Mai stata un ismo, anche gli isti sono ottimsti. Io parto da Stirner, il mio “romanzo formativo”.

D.N: Stesso discorso per le firme?

Mettere una firma è fissare una bandiera. Da sempre l’ho fatto solo su richiesta mentre oggi uso l’impronta.

D.N: Ecco l’impronta. Non è una firma super personale?

Dopo continue richieste di firma mi si è imposta l’impronta perché, insieme a l’occhio, è la cosa più unica che ha l’uomo, ma è svuotata di tutto l’animismo dell’occhio, specchio dell’anima etc. E’assolutamente fredda. Tanto unica quanto impersonale.

D.N: Quindi non c’è una denuncia al controllo etc.

No. Quello è forzato e ci si può giocare. Ma a me interessava l’anonimia dell’unicità.

D.N: I visi frontali in qualche modo son sempre occultati. Negli uomini c’è proprio una solarizzazione, nelle donne lo sguardo è slogato.

Lo slogamento, collage, o altra modalità servono anch’esse a bloccare la profondità, eliminando la psicologia che davvero non mi interessa. Ce la metto tutta per scagionare la riflessione. Nei maschi si gioca con il fasciare flashare.. la metonimia è importante. Come ho detto odio le metafore. Tutto questo rende le figure -come dici tu- “vuote e ospitali”.

D.N: C’è un tentativo di eliminare l’ io.

Facile eliminare l’io. È il soggetto che è difficile far fuori! Tutta la poetica del 900 si è misurata con l’io. Prendiamo la marionetta, da sempre usata in arte, la letteratura, da Pinocchio in su, ma c’era anche da prima, tutta la fantascienza robottona, i replicanti, poi nei film etc, hanno sempre usato l’automa riempiendolo poi di psicologia e coscienza. Ebbene io ho rovesciato questo, parto da un soggetto/modello e poi lo rendo automa. Ma il vero problema è il soggetto, è quello che è dura sopprimere, tanto più restando nella figura, senza tentare l’astratto che in ogni caso non manca certo di soggetto.

D.N: Le figure si muovono, ruotano.

Sono in velocità è diverso. Il movimento è nel cronologico, unico corpo che fa una traiettoria sequenziale. La velocità ha la capacità di apparire contemporaneamente in più luoghi. Inoltre appare immobile e statica. Una trottola al culmine della velocità sembra ferma.

D.N: Il titolo A.A. o........, perché quell’o..?

È Sade, nel riferimento letterario e nella tecnica della sovrapposizione. Quell’ O (l’Elegante Leggerezza dell’Autodistruzione) cita i titoli di De Sade ma di sua è soprattutto la tecnica letteraria (questo per i modelli femminili, non poteva che essere cosi), la sovrapposizione/ripetizione fino alla cancellazione . E poi anche è un gioco dove l’o sta per o questo o quello, o maschio o femmina.

D.N: Ma cos è questa elegante leggerezza? Io lo so ne ho già parlato e ne abbiamo parlato a lungo, ma per chiarirla un po’.

Se la schiarisci è da saturarla fino alla scomparsa. S’è detto è una pratica. Iconoclastia.

D.N: E i perni?

Per roteare occorre un perno no?

D.N: Perché fare maschi e femmine in modo differente?

Perché sono diversi. In realtà sono soggetti alle medesime sollecitazioni, è il modus operandi a cambiare.

D.N: Ci sono idee molto teatrali. Potrebbero dare spunti.

Già fatto, ma un conto è dare delle trovate e un conto è seguire una visione. Per quello ci vogliono dei matti seri.

D.N: E i modelli? Si parla di seduta psicanalitica.

No macchè, è più che altro un partire dai modelli veri per poi svuotarli. Ci si siede, si parla in generale….e poi mi annoto diciamo i tic, che però faccio miei, non sto ad illustrarli o a renderli etc. Li rivisito. La mia è una critica/amputazione creativa, creatica .

D.N: Perché se ti piace la dimensione non espressionista non usi il Computer, l’arte digitale?

Perché non c’è pratica iconoclastica. Si può sempre tornare indietro mentre a me interessa la vita (che è l’opposto della realtà), e li non si può fare il passetto indietro. Con l’arte digitale non posso dare una cosa una volta per tutte. E’ proprio il modus operandi che non mi da questa possibilità, altrimenti magari lo userei.

D.N: Le geometrie? Più si va avanti nelle opere e più aumentano, specie nelle figure femminili; non parlo delle prospettive/spazio che partono dal corpo ma di tutte quelle linee e fili. Per chi ha un minimo di lungimiranza non è difficile prevedere dove si arriverà.

Importante è dire che i fili non stanno a legare la figura, altrimenti sarei di nuovo nella marionetta, ma ne sono la prolunga, la proiezione, ne fanno parte. E’ tutto il “di dentro”tirato fuori. Extimità. Tornando a noi, infatti vado molto piano. L’idea di partenza era già la fine. Mi sono auto controllato.

D.N: Per il pubblico?

Macchè, per non andare fuori di testa…tutto d’un colpo. Lenta capitolazione. Più vizioso.

D.N: Si parla di geometria come esorcismo del caos, bisogno d’ordine, controllo dell’angoscia.

Per me il caos è l’ordine. Sono disordinato in maniera originaria. Un convulsivo. Il Tic è biografia in me. Uso l’ordine come forza del disordine. Per me è difficilissimo lavorare con le figure femminili , mi ci vuole un’auto disciplina che di mio non avrei, ma è importante per disordinare il disordine che in me è l’ordinario…Uso la precisione come “rovina”.

D.N: Chiarissimo!! C’è una femminilità molto barocca.

L’uso della geometria è parodia del naturalismo, armonia impossibile; drappi e linee sono un barocco –addizionale- che perde la natura come riferimento, ma hanno la stessa funzione de-soggettivante.

D.N: Quelle sezioni? Quella specie di stoffa che incolli oppure disegni sempre nelle figure, una specie di broccato damascato. Altra pelle?

Al contrario, è la negazione di ogni profondità, è l’imperscrutabilità totale… ho la laccata lucidità dell’ inutilità d’ogni approfondimento. Di che stoffa siamo fatti? Di questa.

D.N: Horror vacui?

Solo vacui, senza horror. La mia è l’ apologia dell’insolubile. Non il grido ma il sorriso, il sorriso di stoffa.

D.N: Ma a cosa ti serve?

A divenire ottuso e superficiale